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Intervento presso un orfanotrofio della periferia est di Ouagadougou 2011/2012.

Come psicologa infantile, sapendo che avrei trascorso molto tempo in una poverissima scuola alla periferia di Ouagà, sono partita con in mente un progetto, elaborato insieme ai miei colleghi del team psicologico - che sono rimasti in Italia, ma che ringrazio per il loro grande supporto - progetto poi sviluppato qui con l’aiuto di tre cooperanti della associazione.
Il progetto è stata una linea-guida, un’àncora che mi ha permesso di navigare sicura in acque scure e sconosciute, potendo e dovendo fare tante deviazioni inaspettate. Perché, chiaramente, la realtà che ho incontrato era molto diversa da ciò che potevo anche solo immaginare. Le aule della scuola erano luoghi angusti, bui e polverosi. Quasi sempre facevamo le nostre attività nell’aula grande, l’unica con il cemento per terra, poiché le altre erano meno confortevoli delle nostre cantine! Alla fine della mattinata, ci spostavamo all’aperto, nella piccola aia della scuola o addirittura in mezzo alla strada, e lì continuavamo a lavorare sempre attorniati da decine di bambini, e potevamo respirare un po’ di aria fresca!
Trattandosi di bambini orfani o molto poveri, avevamo ipotizzato fosse importante proporre attività finalizzate alla definizione della propria identità (Chi sono io? Qual è il mio posto? Qual è la mia storia? Cosa mi piace?). Dunque, fra i nostri obiettivi vi era:
1. creare una “carta d’identità” per ogni bambino;
2. creare insieme ai bambini delle bamboline, affinché ogni bimbo avesse un suo pupazzetto.
Per le carte d’identità, abbiamo fatto una foto ad ogni bambino, le abbiamo stampate e poi, insieme ai loro insegnanti, li abbiamo intervistati uno per uno, chiedendo a ciascuno: il nome, l’età, il posto dove vive, il gioco preferito, l’animale preferito, ecc.
La creazione delle bamboline, o come dicono loro “puppet”, è stato un lavoro a lungo pensato e che ha richiesto una preparazione logistica non da poco (anche solo per tutto il materiale – fili di lana, ovatta, stoffe di vario genere, colla); la collaborazione di tutti i cooperanti disponibili di Solidaid è stata indispensabile per la realizzazione di questo progetto.
Insieme ai bambini ne abbiamo realizzate 30, lasciando agli insegnanti della scuola il materiale per continuare, se vorranno, il lavoro iniziato.
Perché le bamboline?
Per dare un gioco ad ogni bambino, qualcosa che fosse personale, solo suo (non è cosa da poco per dei bambini che non hanno praticamente nulla). Perché quel gioco non veniva semplicemente donato, ma creato insieme, cosicché ogni bambino poteva decidere come fare il proprio pupazzetto (che vestiti mettergli? come fare i capelli? ecc), facendo dunque un lavoro sull’immagine corporea, sulla propria identità corporea. Perché il puppet poteva fungere da oggetto transizionale: un oggetto morbido che può essere accarezzato, coccolato, accudito (come se fosse una parte fragile di me) e può essere di consolazione in momenti di paura o di tristezza. La bambolina permette inoltre il gioco simbolico, ed infatti subito abbiamo visto alcune bambine legarsi in vita un pezzo di stoffa ed adagiare il loro pupazzetto sulla schiena, proprio come fanno le mamme burkinabè con i loro piccolini!

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Abbiamo dedicato i primi giorni a familiarizzare con i bambini della scuola e con i loro insegnanti. E per conoscerci reciprocamente un po’ meglio abbiamo utilizzato lo strumento grafico. Abbiamo inizialmente proposto a tutti il disegno di sé e poi quello dell’albero. I disegni prodotti da questi bambini indicavano frammentazione e confusione, scarsa individuazione, ma anche scarsa capacità di gestire e organizzare lo spazio bianco del foglio, nonché competenze grafiche inferiori rispetto all’età. Questi bambini non sono abituati ad esprimersi attraverso il disegno. Anche colorare dentro agli spazi (attività che i bambini italiani imparano alla scuola dell’infanzia) per loro era un’impresa ardua!
Nelle attività manuali, che abbiamo proposto nei giorni seguenti, si è invece potuta manifestare tutta la loro vivacità e creatività.
Dopo un primo momento di esitazione, davanti ad un oggetto sconosciuto, i bambini hanno aggredito con energia la pasta di sale o la creta, mostrando grandi abilità manuali e molto spirito di iniziativa, creando animali variopinti o riproducendo oggetti di uso comune, come vasi o addirittura mortai! Rivedo l’entusiasmo e il desiderio di fare dei bambini: ogni cosa era per loro una novità, o comunque una rarità, e volevano provare, sperimentare, godersela a pieno, non perdere neanche un attimo.
Se i primi giorni essi sembravano tanti soldatini ordinati e ben educati, gradualmente sono emerse parti più emotive e più autentiche, fino a quel momento silenti. Abbiamo sentito forte il loro bisogno di essere visti, uno per uno, e venire celebrati per i loro successi, per i loro piccoli “capolavori”. Fra le emozioni, abbiamo visto emergere nei bambini – aggiungerei, sanamente - anche l’aggressività, che spesso si esprimeva con il desiderio di primeggiare o di accaparrarsi per primi l’oggetto proposto per l’attività del giorno. Talvolta occorreva contenerli, ma talvolta occorreva contenere anche il nostro desiderio onnipotente di poterli accontentare tutti, di poterli “nutrire” tutti!

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Questa struttura accoglie circa 160 bambini, divisi per classi in base all’età (vanno dai 4 ai 15 anni circa), ma durante il periodo natalizio le lezioni non si svolgevano regolarmente, per cui ogni giorno incontravamo un numero imprecisato di bambini, alcuni giorni erano tantissimi, che andavano e venivano in modo un po’ confuso.
La prima fatica incontrata è stata quella di non poter avere in alcun modo un setting stabile. Bisognava dunque adattarsi a tale realtà. I bambini erano talmente tanti che spesso i loro stessi maestri confondevano i loro nomi. Talvolta incontravamo facce nuove di bambini mai visti prima o di mamme con bambini molto piccoli in grembo, che probabilmente passavano di lì per caso e si fermavano per qualche ora, mescolandosi al gruppo, forse per curiosità, forse per stare un po’ in compagnia. Le porte delle aule erano sempre aperte (altrimenti non ci sarebbe stata luce), ma questo faceva sì che vi fosse un continuo via vai e una difficoltà di contenimento.
I bambini spesso stavano anche seduti per terra perché non c’era abbastanza posto sulle sgangherate panche. In queste condizioni, chiaramente, un disegno su un foglio di carta rimaneva bianco non più di 5 secondi e un lavoretto manuale finiva facilmente insabbiato, pestato, rotto, perduto. Ho sentito forte l’urgenza di proteggere questi bambini, proteggendo i loro lavori.
Abbiamo quindi protetto i loro lavori attaccando ai muri un chiodino per ogni bambino e ad ogni chiodino è stato appeso uno zainetto rosso con il nome di ciascun bambino sopra. Finalmente, ogni bimbo aveva un suo posto speciale, solo suo, nella scuola, e in quel posto speciale erano custoditi i suoi disegni, i suoi lavoretti manuali e la sua carta di identità.

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Noi cooperanti occidentali, abbiamo notato che i bambini non avevano il senso del possesso (ad esempio, mentre disegnavano, se offrivamo loro la possibilità di cambiare colore, prima di accettare il nuovo pennarello, essi restituivano quello che stavano usando). Evidentemente, possedendo poco o nulla, essi sono abituati a condividere il poco che hanno e a tenersi nulla per sé. Ciò è anche positivo sotto certi aspetti.
Abbiamo percepito in modo molto intenso l’impossibilità di dare significato, di dare valore, al “ciò che faccio” (e quindi al “ciò che sono”), a causa di quella confusione, di quella mancanza di confini e di protezione di cui parlavo poco fa. Ecco perché, ancora più urgente del bisogno di individuazione, è emerso impellente il bisogno di contenimento (senza il quale l’identità non può avere basi). Pertanto, il momento della restituzione è stato una sorta di piccola cerimonia “delle investiture”, in cui ogni bambino è stato “incoronato” con il suo zainetto rosso ed elogiato ed applaudito per tutti i suoi preziosi lavori.
In questo lavoro abbiamo coinvolto anche i giovani insegnanti/volontari della struttura. I primi giorni diffidenti e passivi poi curiosi di fare anch’essi esperienza di queste “novità”. Ad esempio, una mattina la pasta di sale non era neppure sufficiente per tutti i bambini, che continuavano ad arrivare sempre di più da chissà dove, ma loro, gli adulti, ce ne chiedevano un po’ per loro, perché anche loro ci volevano giocare!
Col passare dei giorni, abbiamo osservato alcuni insegnanti attivarsi spontaneamente e cooperare con noi o, addirittura, portare avanti le attività da noi proposte in autonomia e con creatività, riappropriandosi del loro ruolo di docenti. Questo ci ha fatto riflettere sulla necessità primaria di un lavoro con gli adulti. Per quanto per il cooperante sia emozionante e gratificante avere un contatto diretto con i bambini, abbiamo compreso quanto sia fondamentale lavorare a stretto contatto con genitori ed insegnanti, soprattutto se, in quanto cooperanti di una missione umanitaria, si è solo di passaggio.
Ma chi resta sono loro.

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Nella cittadina di Koupelà, un prete cattolico originario del Burkina Faso che ha trascorso gli anni della sua formazione in occidente, un uomo dotato di grande intelligenza e carismami diceva: ”Tornato in Burkina ho gettato via l’agenda perché qui è impossibile organizzare alcunché. I burkinabè vivono nel presente, come se il domani non esistesse”.
Procura più serenità, più leggerezza, un tipo di vita così?
Ma non riesco a non chiedermi che valore posso dare al mio presente se non ho una progettualità? Cosa sono io oggi, se non importa il futuro?
Riportando questa riflessione nelle attività proposte a scuola, ad esempio, molti dei lavoretti in creta fatti dai bambini sono andati perduti o distrutti prima che avessero finito di essicarsi e potessero essere dipinti. Ma se non c’è un progetto, dove si inserisce il cambiamento? o un percorso di maturazione? o la possibilità di un’evoluzione (che sia di un pezzo di argilla o di un bambino)?
Una giovanissima ma molto capace suora di New York incontrata durante una nostra visita ad un CREN (Centro di Recupero Rieducazione Nutrizionale), ci ha raccontato la sua esperienza:
“Le mamme burkinabè tengono in braccio i loro bambini (o sulle gambe o sulla schiena), ma non sono solite giocare con i loro bambini. Guardano i giochi con occhi pieni di stupore, quasi di diffidenza.”
Non sanno giocare con i loro bambini forse perché nessun adulto ha mai giocato con loro quando erano piccole. La nostra cultura inquina il nostro modo di pensare e la nostra capacità di giudizio? Forse, se le cose stanno così, è perché così devono andare.
Ma non posso non pensare (e magari sbaglio perché forse non ho ancora capito nulla di questo popolo!) che, a fronte di un’intensa relazione, una forte unione fisica, tra la madre e il suo bambino nei primi anni vita, in seguito vi sia una sorta di frattura del legame: senza aver giocato con la sua mamma, il bambino va nel mondo, si fonde e si confonde con esso, e diventa grande.
Ma durante questo viaggio di andata (verso il mondo adulto) può giocare/può godere delle esperienze che fa? Oltre a conoscere come va il mondo, può immaginare qualcosa di nuovo? E l’adulto, che sia genitore o insegnante, può ritornare ad essere bambino? Può recuperare il bambino perduto che è dentro di lui o di lei? Può trovare o ritrovare, da qualche parte dentro di sé, la capacità di giocare? Può immaginare di poterlo fare?
“L’immaginazione è più importante della conoscenza”(Albert Einstein).
E noi? Possiamo fare qualcosa?

S.C.

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